DEBITO PUBBLICO: UN CONFRONTO FRA GIAPPONE E ITALIA

Il debito pubblico del Giappone è il più alto al mondo rispetto al Pil, quasi doppio rispetto a quello italiano. I due paesi hanno sistemi economici completamente differenti, il che impedisce all’Italia di sostenere un debito dalle dimensioni di quello giapponese. I diversi contesti non impediscono a Roma di trarre un importante insegnamento dalle caratteristiche del debito di Tokio.

Il debito pubblico giapponese presenta numeri spaventosi: a fine 2012 ammontava al 236% del Pil. E, dato ancora peggiore, con un tendenziale di crescita inaudito, visto che l’anno scorso la terza economia mondiale ha chiuso il bilancio pubblico con un deficit al -10% sul Pil. Per di più nel 2013 l’Abenomics (post “L’Abenomics: il nuovo corso economico giapponese. Tanta spesa pubblica e profonde riforme”) porterà ad un incremento ancora più consistente del deficit, nel tentativo di rilanciare un’economia stagnante da vent’anni.

E’ naturale chiedersi per quale motivo il Giappone possa permettersi da anni il lusso di una politica economica espansiva in deficit spending infischiandosene del debito accumulato. Al contrario, invece, il debito italiano (che veleggia intorno al “solo” 130% del Pil) viene considerato alla lunga insostenibile ed è visto con sospetto dal resto d’Europa.

Il Giappone rappresenta oggettivamente un caso del tutto peculiare: sono due le ragioni che lo differenziano in modo sostanziale dai paesi europei.

I DETENTORI DEL DEBITO

La vera arma vincente del Tesoro giapponese è che il debito è quasi integralmente (al 90%, secondo le ipotesi più ricorrenti) in mani giapponesi. Il fatto che i bond non siano esposti alle derive del circuito finanziario internazionale presenta l’indubbio vantaggio di rendere il debito immune alla speculazione di origine straniera (anglosassone in particolare).

Di fatto i giapponesi con i propri risparmi finanziano massicciamente la spesa pubblica, con vantaggi enormi per entrambe le parti coinvolte: gli investitori sono certi della solidità dell’emittente e della inattaccabilità delle quotazioni da parte della speculazione, lo Stato riesce a spuntare tassi bassissimi, proprio perchè non deve presentarsi con il cappello in mano al cospetto di sottoscrittori stranieri (che metterebbero in concorrenza i rendimenti con quelli di altri debiti sovrani). Tutto questo comporta lo svantaggio, per i sottoscrittori, di una minore liquidità dei bond, a dire il vero abbastanza ininfluente in un paese in cui per mentalità i privati e gli investitori istituzionali tendono ad agire da cassettisti.

IL RUOLO DELLA BANCA CENTRALE

L’altro grande vantaggio del Giappone rispetto ai paesi europei è la presenza di una (vera) banca centrale: la Bank of Japan (Boj) può stampare moneta e quindi, in qualità di prestatore di ultima istanza, può finanziare la spesa pubblica sottoscrivendo debito pubblico di nuova emissione, ma anche acquistarlo sul mercato (per influenzare i tassi). Facoltà che hanno tutte le principali banche centrali mondiali (Fed, Bank of England, Banca Centrale Svizzera), tranne la Bce. Francoforte, anzi, nel corso del 2011 e 2012 ha dovuto  interpretare molto estensivamente il suo statuto al fine di procurarsi strumenti non convenzionali (Smp, Ltro, scudo anti-spread) per proteggere l’unitarietà dell’Eurozona dagli attacchi speculativi internazionali. Piuttosto che ampliare il mandato della Bce per renderla più simile alle altre banche centrali, nell’Eurozona si è scelto addirittura di creare un fondo salva-Stati (Esm, controllato e finanziato dagli Stati membri) per dotare anche l’euro (come ogni altra moneta) di un’istituzione in grado di acquistare titoli di Stato di nuova emissione in caso di bisogno. Peraltro gli acquisti da parte dell’Esm possono essere effettuati solo in funzione di stabilità dei mercati e salvataggio degli Stati e mai al fine di puro finanziamento della spesa pubblica: un caso unico al mondo.

In realtà il finanziamento (solo teoricamente illimitato) che una banca centrale può fornire alla spesa pubblica del suo Tesoro dovrebbe incontrare un limite oggettivo: inondare il mercato interno di nuova moneta per sostenere la spesa pubblica e la crescita comporta, in condizioni normali, la quasi certezza dell’esplosione, prima o poi, dell’inflazione. Gli ultimi anni, dopo la crisi mondiale partita dal fallimento di Lehman Brothers,  hanno dimostrato che tale regola non è meccanicistica: la Fed americana ha inondato per tre volte il mercato di liquidità (quantitative easing) senza che il mostro dell’inflazione monetaria sia stato risvegliato dal letargo. La Fed, in realtà, ha creato inflazione “solo” finanziaria, meglio nota sotto il nome di bolle speculative, le quali possono essere anche più pericolose dell’inflazione monetaria se non tenute sotto stretto controllo (la crisi dei mutui subprime americani ha tratto origine dall’esplosione di una bolla creditizia).

Nel caso del Giappone la Boj ha deciso nei mesi scorsi di adottare una politica monetaria ultra-espansiva, accettando di stampare moneta e di finanziare in modo consistente la spesa pubblica a debito: del resto uno degli obiettivi della nuova politica economica/monetaria giapponese è proprio quello di far tornare l’inflazione, visto che il paese soffre da oltre un decennio di una stagnazione dovuta anche alla deflazione (il prezzo dei beni e servizi scende, anziché salire: dal 1997 al 2011 i prezzi sono scesi dello 0,08% secondo dati Eurostat).

IL RISCHIO PROSPETTICO

Il debito giapponese, quindi, appare sostenibile in quanto finanziato con il risparmio interno e, se questo non dovesse bastare, dalla banca centrale nazionale. Tale condizione permette al Tesoro nipponico di pagare anche tassi risibili sullo stock di debito accumulato, proprio perchè il prezzo del credito concesso dai privati allo Stato è sottratto al meccanismo della domanda e offerta (non essendo inclusa nella domanda quella proveniente dagli operatori stranieri).

Tale favorevole contesto non vuol dire che il Giappone sia immune da rischi in relazione al suo debito pubblico. Il principale rischio che insiste sulla sostenibilità prospettica dell’indebitamento giapponese è il  fattore demografico. La gran parte della ricchezza dei risparmiatori giapponesi investita nel debito interno è in mano a baby boomers, nati tra gli anni ’40 e ’60: queste generazioni, colonne portanti del sistema economico del paese, stanno entrando gradualmente in pensione. Se, una volta a riposo, il grosso dei risparmiatori giapponesi decidesse di non accumulare più, o addirittura di spendere parte del risparmio, verrebbe meno il presupposto dell’autofinanziamento interno della spesa pubblica. A quel punto il mercato dei bond dovrebbe aprirsi ai capitali esteri, che potrebbero essere allettati solo con tassi ben superiori agli attuali.

Altro fattore di potenziale debolezza futura è la epocale politica di deficit spending inaugurata da pochi mesi dal governo Abe: se il risparmio interno non dovesse risultare sufficiente a finanziare l’enorme incremento di spesa in programma, la soluzione sarebbe sempre quella di reperire risorse all’estero. Probabilmente l’Abenomics, che pur rappresenta un potenziale rischio aggiuntivo per la sostenibilità del debito, è stata adottata proprio per scongiurare il lento ma certo e inesorabile declino legato alla criticità demografica nipponica: l’impressione è che Tokyo abbia deciso di tentare il rilancio dell’economia con politiche monetarie e fiscali molto aggressive finchè è ancora possibile, pressata dal circuito vizioso deflazione/recessione e dall’imminente rischio del cambio delle abitudini di risparmio dei suoi cittadini/creditori.

Per comprendere sino in fondo il quadro debitorio giapponese va evidenziato  un aspetto di contesto essenziale (a sua volta ulteriore fattore di rischio): oggi il Giappone, pur pagando tassi bassissimi, destina circa un quarto delle sue entrate tributarie al pagamento degli interessi. Se i tassi medi sul debito dovessero salire anche di poco, sarebbe certo il tracollo del bilancio pubblico: si aprirebbe una spirale interessi/nuovo debito ben più accentuata di quella (pur grave) italiana, da cui è difficilissimo uscire se non tagliando drasticamente la spesa e il debito pubblico (operazione politicamente sempre titanica).

Risulta evidente, pertanto, che il debito sarà sostenibile per il Tesoro giapponese fintanto che non diventi necessario il ricorso a sovventori esteri, o meglio finchè i tassi rimarranno tendenti allo zero.

A prescindere dalla causa, qualora il risparmio giapponese iniziasse a scarseggiare rispetto al fabbisogno di finanziamento pubblico, le prerogative della Boj, in quanto finanziatore dello Stato di ultima istanza, potrebbero tamponare la carenza per qualche tempo, ma poi la troppa moneta stampata provocherebbe una potente svalutazione dello yen, causando probabilmente una decisa reazione internazionale che sfocerebbe in una guerra valutaria (con gravi conseguenze per tutti i paesi contendenti sul piano dell’economia reale). A questo punto il Giappone sarebbe, in ogni caso, a forte rischio di default.

UN ESEMPIO DA ANALIZZARE

Lo stato di sospensione dal mercato del debito giapponese dovrebbe essere d’insegnamento per l’Italia, in un’ottica di gestione del proprio debito pubblico improntata alla minimizzazione del rischio di mercato. La storia degli ultimi anni ha  messo in evidenza che la dipendenza estera di un debito pubblico provoca effetti perversi quando le cose vanno male e i grandi investitori scappano: aumentano i tassi sul debito, aumenta la pressione fiscale per pagare gli interessi, aumentano i tassi bancari, entra in corto circuito l’economia reale. Seppur utile in tempi di vacche grasse a finanziare lo sviluppo (sempre a patto che lo Stato si indebiti per sostenere spese per investimenti, cosa che in Italia non è avvenuta), la sottoscrizione di quote consistenti di debito pubblico da parte di investitori professionali esteri espone uno Stato molto indebitato ad evidenti rischi di declino (se non anche di bancarotta, come insegna la Grecia, e non solo) in caso di shock esterni.

Roma ha nella sua faretra molte meno frecce di Tokyo: Bankitalia e/o Bce non possono finanziare il Tesoro per adottare programmi di spesa a debito, il livello di risparmio privato è comunque più basso di quello giapponese e troppo intermediato dal sistema bancario, le banche europee soggiacciono a regole che limitano la sottoscrizione di debito pubblico, … Via XX Settembre è oggettivamente in una condizione meno comoda di quella del Tesoro giapponese, ma la lezione dell’autofinanziamento autoctono nipponico non va ignorata. Del resto l’invecchiamento della popolazione e la connessa possibilità di un cambio strutturale della propensione media al risparmio sono elementi di comunanza fra Roma e Tokyo (in Italia, anzi, il fenomeno di rallentamento nell’accumulazione del risparmio è già in atto da diversi anni, anche a causa di una disoccupazione molto più consistente).

Un punto sostanziale a favore dell’Italia è che il debito è circa la metà in rapporto al Pil: pertanto shock sui tassi, nel breve/medio termine, sono  sopportabili, seppur con grande fatica (come le vicende del 2011/2012 dimostrano).

CONCLUSIONI

Alla luce dei molteplici elementi di svantaggio del sistema Italia, si possono trarre due conclusioni. Innanzitutto che il rapporto indebitamento/Pil che l’Italia può permettersi è notevolmente più basso di quello giapponese, proprio per la diversa conformazione istituzionale dell’autorità monetaria europea (con poteri di intervento sul debito molto deboli) rispetto a quella giapponese. Il che, piaccia o meno, è una costante esogena data e immodificabile nel breve/medio termine. Il debito italiano sembra essere al limite (o forse lo ha anche superato) di sostenibilità nel contesto europeo.

In secondo luogo il caso giapponese insegna che è possibile intervenire per contenere l’esposizione del debito pubblico al rischio-spread. Governo e politica italiani dovrebbero svolgere attente analisi sulla criticità strutturale che il debito pubblico in mano a detentori esteri comporta sul sistema economico, senza dare per scontato che il ricorso al mercato internazionale sia sempre e comunque la miglior soluzione per l’interesse nazionale. Tokyo insegna che è più prudente trattenere il debito pubblico entro i confini nazionali: decisioni e misure di indirizzo in merito andrebbero prese in tempi rapidi.

Un contesto in cui i cittadini/percettori di interessi (sul debito pubblico e/o privato) si accontentino di tassi allineati all’inflazione (o, in Europa, a quelli tedeschi) in cambio dell’assoluta solidità del sistema creditizio e dello Stato (al riparo dalle pressioni finanziarie internazionali) sarebbe di grande vantaggio competitivo per il sistema-paese. Riportare la maggior parte del debito pubblico in Italia non solo fornirebbe maggior solidità, ma spingerebbe all’impiego dei capitali nell’economia reale, incentivando i redditi da lavoro e le rendite produttive rispetto alle rendite finanziarie (al contrario di quanto accade oggi). Verrebbe anche ridotto il flusso di ricchezza prodotta in Italia (incamerata dallo Stato a titolo di imposte) che oggi attraversa i confini nazionali sotto forma di interessi sul debito sovrano in mano ai detentori esteri.

Rimarrebbe il fatto che lo Stato non potrebbe finanziare la sua spesa facendo ricorso al supporto della banca centrale: ma questo è un altro discorso, non risolvibile su base nazionale.

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