DECLINO ECONOMICO E PREVIDENZA: IL CROLLO DEL PIL STA RIDUCENDO LE PENSIONI (MA SOLO QUELLE FUTURE)

Dal 2011 i versamenti pensionistici dei lavoratori italiani perdono potere d’acquisto (si rivalutano meno dell’inflazione), a causa del pessimo andamento del Pil dal 2008 in poi. Nel 2013 non si è avuta alcuna rivalutazione, per il 2014 addirittura i contributi versati subiranno un taglio in valore assoluto (rendimento negativo). La decrescita del Pil italiano, se prolungata nel tempo, avrà pesantissime ripercussioni sugli assegni previdenziali futuri.

L’obiettivo dell’Italia deve essere la crescita economica. Dall’incremento del Pil, infatti, dipende la sostenibilità del debito (post “Il debito pubblico italiano è sostenibile?”), l’abbattimento del tasso di disoccupazione a due cifre, l’inversione del trend discendente del reddito medio degli italiani. Insomma, il ritorno sulla via della crescita economica sarebbe la panacea per migliorare il contesto economico/sociale descritto nel post “Lo stato di salute dell’Italia a fine 2013: i dati definitivi”. Meno noto è che dall’evoluzione del Pil dipende in misura rilevante anche l’entità della futura pensione di chi oggi lavora.

IL FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA RETRIBUTIVO

In passato il calcolo retributivo della pensione garantiva la maturazione certa e predeterminata di una percentuale della retribuzione per ogni anno di lavoro svolto (il 2%, o anche più per alcune categorie): con 40 anni di lavoro si aveva diritto ad una rendita pari all’80% della media delle retribuzioni degli ultimi anni di attività (quelli normalmente a retribuzione più elevata). Questo meccanismo consentiva l’indicizzazione delle pensioni sia all’inflazione (che veniva recuperata nei salari) che alle dinamiche salariali individuali (avanzamenti di carriera, incrementi retributivi per anzianità di servizio).

Il sistema aveva il pregio di essere chiaro e con numeri sostanzialmente predeterminabili, ma le prestazioni erano completamente scollegate dai versamenti effettuati: pertanto non si teneva in alcun conto l’equilibrio prospettico del sistema stesso, il quale, infatti, è andato in tilt in quanto costretto ad erogare pensioni di molto superiori ai contributi incassati.

Fra i tanti, vanno messi in risalto due aspetti paradossali di tale meccanismo: sono state fortemente agevolate solo alcune generazioni di lavoratori, ovvero chi oggi riceve prestazioni di molto superiori a quanto effettivamente versato; tra costoro i maggiori beneficiari risultano essere le categorie con i redditi più alti, che si sono viste riconoscere anche pensioni più consistenti (pertanto anziché contribuire più che proporzionalmente in ragione della più agiata condizione economica, hanno avuto riconoscimenti previdenziali più che proporzionali).

La conseguenza di tale impostazione è stata la necessità per lo Stato di incrementare in modo consistente le aliquote contributive sui lavoratori attivi per poter far fronte alle generose prestazioni previdenziali riconosciute a vantaggio delle generazioni (diciamo così) più fortunate.

IL FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA CONTRIBUTIVO

La riforma previdenziale del 2012 (post “La riforma previdenziale Fornero”) ha esteso il sistema di calcolo contributivo della pensione anche ai lavoratori fino a quel momento legati al retributivo. Tutti gli iscritti all’Inps (in modo integrale o per almeno una parte degli anni lavorati) e buona parte di quelli che fanno capo alle altre casse previdenziali hanno oggi la futura pensione correlata alle trattenute previdenziali effettivamente versate: si tratta della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani.

Con il sistema contributivo l’assegno pensionistico si detrmina applicando un coefficiente di trasformazione (che varia in funzione dell’età di accesso alla pensione) al totale dei contributi versati durante la vita lavorativa (cosiddetto montante contributivo individuale); va anche ricordato che la riforma pensionistica Dini del 1995 ha stabilito che i contributi vengono rivalutati in base alla media del Pil nominale nei cinque anni precedenti. In sostanza, quindi, l’importo della pensione lorda annua del lavoratore viene calcolato al momento della domanda di pensionamento moltiplicando l’importo del montante contributivo individuale finale (versamenti rivalutati) per il coefficiente di trasformazione. L’entità del trattamento pensionistico di ogni lavoratore, pertanto, dipende da tre variabili fondamentali: l’entità dei contributi accantonati (su cui incidono la dinamica della carriera e la continuità dei versamenti), l’andamento della speranza di vita (che determina il coefficiente di trasformazione) e la crescita economica del paese (che determina la rivalutazione tempo per tempo del montante contributivo durante la vita lavorativa).

Di seguito si analizzerà l’influenza che la dinamica del Pil ha sulle rendite pensionistiche future dei lavoratori oggi attivi, questione piuttosto tecnica e secondo noi di Economy2050 non sufficientemente nota (il tema era già stato accennato nel post “Pensioni, mattone e spesa pubblica: il tramonto delle certezze degli italiani”). Per chi fosse interessato alla descrizione più analitica dell’impostazione di fondo del sistema previdenziale italiano si rimanda al post “La logica del sistema previdenziale italiano: perchè lo Stato ha salvato l’Inps”.

L’INCIDENZA DEL PIL SULLE PENSIONI

Come vedremo, la crescita dell’economia nazionale incide in modo tangibile sulla rivalutazione del capitale accumulato durante il periodo di contribuzione del lavoratore, tanto più alla luce del consistente allungamento dell’arco di vita lavorativa imposto dalle riforme previdenziali succedutesi in Italia dal 1995 in poi (più anni di lavoro significano più anni di rivalutazione dei versamenti). Il che equivale a dire che l’evoluzione del Pil riveste un ruolo fondamentale nella determinazione delle future rendite previdenziali.

Il meccanismo di rivalutazione prevede che al 31 dicembre di ogni anno il montante contributivo individuale versato (con l’esclusione della contribuzione dell’anno in scadenza) venga rivalutato ad un tasso di capitalizzazione pari alla variazione media del Pil dell’ultimo lustro (come determinata dall’Istat); tale rivalutazione ha effetto per le pensioni aventi decorrenza dal primo gennaio dell’anno immediatamente successivo. In concreto una posizione previdenziale individuale al 31 dicembre 2013 si determina applicando al montante accumulato fino al 31 dicembre 2012 il tasso di capitalizzazione relativo all’anno 2013, poi a tale importo si aggiunge quanto versato nel corso del 2013. Al lavoratore che va in pensione nel corso del 2014 verrà riconosciuto tale montante (incrementato per quanto eventualmente versato nel corso del 2014 stesso). Il Pil preso in considerazione è quello nominale (prodotto fra quantità correnti di beni e servizi finali e prezzi correnti), che include anche l’incremento dei prezzi dovuto all’inflazione.

Utilizzando il Pil nominale il legislatore ha voluto porre i versamenti previdenziali dei lavoratori al riparo dall’erosione del valore della moneta, visto che la variazione dei prezzi viene automaticamente recuperata. Va tuttavia osservato che il vero incremento di valore del montante contributivo dipende dalla crescita reale (quella al netto dell’inflazione) del sistema-Italia: solo se il Pil nominale cresce (in modo significativo e costante nel tempo) più dell’inflazione i versamenti contributivi accumulati salgono di valore al netto della rivalutazione dei prezzi, ovvero il lavoratore al momento del pensionamento disporrà di un capitale superiore alla semplice somma dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa. Poter contare su un maggior capitale significa, chiaramente, aver diritto ad una rendita mensile superiore. Va inoltre osservato che l’utilizzo di una media a cinque anni attenua le oscillazioni del Pil, riducendo l’incidenza dei picchi annuali: quel che conta in questo sistema di calcolo, quindi, è la dinamica di medio termine del Pil italiano, visto che un solo anno di recessione (Pil negativo) non può incidere più di tanto sulla rivalutazione del montante.

Per comprendere la centralità della dinamica del prodotto interno in prospettiva previdenziale, basti ricordare che una crescita strutturale media del Pil nominale al 4% annuo implicherebbe un raddoppio del montante contributivo individuale in poco meno di diciott’anni, mentre una crescita bassa (come quella degli ultimi anni) non garantirebbe neanche la protezione rispetto all’inflazione.

COME IL DECLINO STA ERODENDO I VERSAMENTI PREVIDENZIALI

Le riforme previdenziali degli anni scorsi erano basate su previsioni di crescita nominale del Pil almeno intorno al 4% annuo: in tale scenario la rivalutazione dei versamenti previdenziali sarebbe stata accettabile, in caso di crescita superiore anche soddisfacente. Tale presupposto di crescita (peraltro inferiore alla media dei decenni precedenti) non è stato soddisfatto, visto che  dal 2000 in poi il prodotto interno è salito poco e che, dal 2008 in poi, l’Italia è addirittura entrata in una fase di declino economico: in ben quattro degli ultimi sei anni (2008, 2009, 2012 e 2013) il Pil reale è arretrato. Ciò sta facendo emergere il grave punto debole dell’attuale sistema previdenziale italiano: se in caso di una strutturale stagnazione dell’economia nazionale le rivalutazioni previdenziali non risultano congrue (inferiori all’inflazione), addirittura in caso di contrazione strutturale del prodotto interno il montante contributivo individuale potrebbe arrivare a ridursi in valore assoluto.

I numeri riportati in tabella mostrano chiaramente la dinamica in atto: la  rivalutazione annua dei montanti contributivi fino al 2000 era superiore al 5%, a fine 2006 era sceso sotto il 4%, nel 2009 si era ridotta al 3,3%; nel 2010 si è registrato quasi un dimezzamento a quota 1,8% (primo anno in cui ha inciso il tracollo del Pil al -5,5% del 2009).

DINAMICA DI PIL, INFLAZIONE E RIVALUTAZIONE DEGLI ACCANTONAMENTI PREVIDENZIALI IN ITALIA (PERIODO 1997-2013)

VARIAZIONE PIL NOMINALEVARIAZIONE PIL REALE% DI RIVALUTAZIONE DEL MONTANTE CONTRIBUTIVO*INFLAZIONE
19974,51,95,58712,00
19984,11,45,35972,00
19993,31,55,65031,70
20005,73,75,17812,50
20014,81,94,77812,80
20023,70,54,36982,50
20033,10,04,16142,70
20044,21,73,92722,20
20052,80,94,05062,00
20063,92,23,53862,10
20074,11,73,39371,80
20081,3-1,23,46253,30
2009-3,5-5,53,32010,80
20102,11,71,79351,50
20111,80,51,61652,80
2012-0,8-2,41,13443,00
2013-0,4-1,90,16431,20

* variazione media del Pil nei cinque anni precedenti; la rivalutazione indicata nel 1997 si applica al montante maturato al 31/12/1996 (e così via)

Elaborazione Economy2050 su dati Istat

Dal 2011 la rivalutazione dei versamenti previdenziali è stabilmente sotto il livello di inflazione. Si è arrivati quindi al tasso di capitalizzazione2013 (utilizzato per rivalutare i montanti maturati sino al 31 dicembre 2012), comunicato dall’Inps ad inizio 2014: appena lo 0,1643%, ovvero nessuna rivalutazione. Dalla tabella scaturiscono tre osservazioni.

In primo luogo si nota che negli ultimi tre anni la massa dei versamenti pensionistici degli italiani ha perso oltre il 4% del potere d’acquisto: ciò in quanto nel sistema previdenziale italiano non è prevista alcuna clausola di salvaguardia che protegga i montanti contributivi dall’erosione dell’inflazione, ovvero che imponga un tasso di rivalutazione minimo almeno pari all’inflazione anno per anno. E’ il caso di ricordare che i versamenti contributivi dei lavoratori sono obbligatori.

Va poi sottolineato che, se di fatto nel 2013 non si è avuta alcuna rivalutazione dei versamenti pregressi, appare certo che l’anno prossimo la rivalutazione sarà negativa: al Pil nominale positivo del 2008 si sostituirà il dato negativo del 2013. Si verificherà, quindi, un ulteriore evento negativo: per la prima volta nella storia d’Italia la rivalutazione dei montanti contributivi smotterà in territorio negativo anche in valore assoluto. Infatti il sistema italiano non prevede neanche una protezione contro tale eventualità: se il Pil nominale scende per più anni ravvicinati fino a divenire mediamente negativo in un quinquennio, tutti i versamenti contributivi accumulati dagli italiani sino a quel momento vengono decurtati anche in termini assoluti (oltre ad essere falcidiati dall’inflazione).

Infine è il caso di evidenziare che sicuramente nei prossimi quattro anni la rivalutazione dei montanti previdenziali rimarrà bassa, poiché dovranno ancora essere smaltiti i Pil nominali negativi del 2009, 2012 e 2013. Peraltro, se l’Italia non saprà far crescere molto rapidamente la propria economia, le rivalutazioni di inizio secolo (peraltro discrete, ma non certo eccezionali) rimarranno molto a lungo una pia ambizione.

CONCLUSIONI

Lo stretto legame fra dinamica del Pil e impegni previdenziali pubblici futuri è una regola in sé logica, visto che il debito previdenziale prospettico (componente sostanziale del più ampio debito pubblico prospettico) è sostenibile se collegato alla crescita dell’economia, piuttosto che ad altri parametri macro. Del resto, anche grazie all’attuale sistema previdenziale, l’Italia ha uno dei debiti pubblici prospettici meno preoccupanti fra i paesi occidentali (post “Il debito pubblico italiano è sostenibile?”). Il rovescio della medaglia è che tale regola protegge meno il potere d’acquisto delle pensioni future, quindi a certe condizioni rischia di produrre gravi effetti negativi per i lavoratori: il sistema pensionistico continuerà a rimanere finanziariamente sostenibile, ma erogherà pensioni modeste (se non addirittura molto basse). Per inciso va evidenziato che l’attuale sistema previdenziale italiano presenta anche altre caratteristiche, oltre al legame a doppio filo con l’evoluzione del Pil, che convergono nella direzione di magre rendite previdenziali future: la precarietà del lavoro (che rende difficoltosa la continuità dei versamenti per tutto l’arco della vita lavorativa), la continua erosione dei salari reali (in particolare per i giovani, ma non solo), i coefficienti di trasformazione. Questi ultimi sono correlati all’età anagrafica e vengono rideterminati ogni tre anni sulla base delle rilevazioni demografiche: se (come prevedibile) l’aspettativa media di vita aumenterà nel tempo, i coefficienti si ridurranno e contribuiranno significativamente a contrarre gli assegni pensionistici.

Secondo noi di Economy2050 è evidente che in termini astratti il sistema previdenziale italiano rimane ben impostato su un binario di stabilità prospettica nonostante la crisi economica, ma in concreto il legislatore ha semplicemente rinviato di qualche decina d’anni (quando verranno a maturazione pensioni da fame per i lavoratori odierni) l’emersione dell’impoverimento grave e generalizzato della società italiana che già oggi può leggersi nei numeri. Nel lungo termine si prospetta uno scenario in cui la previdenza sarà risanata, ma in cui probabilmente gran parte delle pensioni dovrà essere integrata con altre forme di sostegno al reddito: tali risorse dovranno essere reperite al momento del bisogno (si spera in un contesto economico più vitale) e disegneranno un pesante spostamento della spesa pubblica dalla previdenza all’assistenza (contrasto alla povertà). La scelta politica (attuata dal 1995 ad oggi con diverse intensità ma in modo continuo) di chiedere meno sacrifici ai pensionati attuali e impostare un sistema di depauperamento previdenziale con effetti molto dilazionati nel tempo (specie in un paese condannato alla decrescita come da tempo è l’Italia) presenta i gravi rischi sociali e politici di incrinare la fiducia collettiva riposta sulla previdenza pubblica e di minare irrimediabilmente il rapporto di solidarietà intergenerazionale che sta alla base di un sistema previdenziale come quello italiano: difficile ritenere che le giovani generazioni accettino per tutta la vita lavorativa di effettuare versamenti elevatissimi e vedersi riconoscere addirittura meno (in termini di potere d’acquisto) di quanto messo da parte per 30-40 anni, a maggior ragione se si diffondesse la consapevolezza che tali denari sono serviti a pagare pensioni generosissime a generazioni che hanno avuto anche il vantaggio di periodi lavorativi più brevi (e di retribuzioni con maggior potere d’acquisto).

Alcuni interventi correttivi per contenere sin da oggi il prevedibile impoverimento delle pensioni di domani sono possibili. Rimanendo all’interno del settore previdenziale, quantomeno si dovrebbe introdurre da subito una clausola di salvaguardia che impedisca la riduzione in valore assoluto dei contributi versati (obbligatoriamente) dai lavoratori; meglio ancora sarebbe inserire per legge una soglia minima alla rivalutazione annuale del montante previdenziale individuale pari all’inflazione. Il sistema previdenziale ne risulterebbe sicuramente meno solido, ma assolverebbe meglio alla sua funzione di protezione dei cittadini anziani del futuro (epoca in cui i pensionati saranno realmente cittadini in là con gli anni); inoltre, in tal modo, si inizierebbe a correggere lo squilibrio di tutele che le riforme previdenziali italiane hanno accentuato a favore dei pensionati odierni. Tuttavia non sono ipotizzabili in alcun caso interventi tesi a ripristinare lo status di diritto sociale acquisito per le pensioni a prescindere da vincoli finanziari: la correlazione automatica delle prestazioni previdenziali con l’equilibrio dei conti pubblici dovrà rimanere effettiva.

Pertanto l’intervento più efficace da attuare dovrebbe riguardare l’approvazione di misure tendenti a sbloccare le potenzialità di crescita del Pil: le riforme in grado di aumentare la produttività del sistema-Italia sono l’unica via per garantire pensioni dignitose fra qualche decina d’anni. Per di più, se si riuscisse a far ripartire lo sviluppo, automaticamente si ridurrebbe la disoccupazione: in termini previdenziali ciò implicherebbe l’attenuazione del fenomeno della discontinuità contributiva implicita nella precarietà occupazionale. A nostro giudizio oggi sarebbero poco incisivi eventuali stimoli fiscali per incentivare la previdenza integrativa: l’attuale potere d’acquisto dei salari di coloro che godranno delle pensioni più basse è troppo ridotto per consentire adeguati versamenti volontari nel terzo pilastro previdenziale.

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