Un report della Banca d’Italia ha illustrato i numeri (molto preoccupanti) del declino manifatturiero italiano e indagato sulle sue cause. Secondo Via Nazionale non è ancora troppo tardi per recuperare la competitività perduta, a patto di agire con rapidità e con interventi radicali.
Un recentissimo studio pubblicato nella collana Questioni di economia e finanza della Banca d’Italia intitolato “Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi” ha analizzato, con ampio corredo di dati, il declino produttivo in corso ormai da anni in Italia. Le crude cifre hanno fotografato il disastroso trend assunto dal sistema industriale nazionale: l’evidenza di fondo è che tutti i settori della manifattura italiana si sono contratti in modo notevole rispetto a quanto producevano prima del 2008 (si legga a tal proposito anche il post “L’industria italiana si sta spegnendo”). Una decrescita che si configura oggettivamente come la più intensa del secondo dopoguerra e che presenta caratteri di declino strutturale evidenti.
Nonostante il grave cedimento del sistema industriale, il messaggio che l’analisi di Bankitalia propone è positivo: un futuro di crescita per l’Italia è possibile, non è ancora troppo tardi per un’inversione di rotta in direzione dello sviluppo. Questo scenario ottimistico potrà tuttavia avverarsi solo a patto che si riesca a conservare un apparato manifatturiero all’altezza di un’economia industriale: senza il verificarsi di tale condizione (necessaria, anche se non sufficiente), l’Italia non potrà ambire ad alcuno sviluppo di una qualche rilevanza.
Da notare che tra gli otto economisti autori dello studio figura anche Daniele Franco, da circa due mesi nominato Ragioniere Generale dello Stato.
IL DECLINO STRUTTURALE IN ATTO
Secondo i ricercatori di Via Nazionale l’industria italiana mostra “un quadro di diffusa debolezza”: “la perdita di produzione ha assunto dimensioni preoccupanti”, dal momento che “in tutti i comparti industriali i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi”. E’ proprio l’industria il settore economico in cui il calo della produzione è stato maggiore, sia nella componente manifatturiera che in quella delle costruzioni: se dal 2007 il Pil complessivo è sceso di ben il 7%, all’inizio del 2013 la produzione industriale risultava inferiore di circa il 25% rispetto al livello pre-crisi. La manifattura è arretrata di circa tre volte e mezza la media dell’economia nazionale!
Il grafico evidenzia che il calo della produzione italiana è reso ancora più preoccupante dal confronto con Francia e Germania (economie molto paragonabili a quella italiana per dimensioni, presenza di un forte apparato industriale, appartenenza all’euro, …), che si sono contratte in misura molto inferiore. Peraltro, in termini di Pil pro-capite la posizione dell’Italia peggiora fin dagli inizi degli anni Novanta nei confronti di Stati Uniti e Gran Bretagna, dalla metà degli anni Novanta rispetto alla Francia e dalla metà dello scorso decennio verso la Germania.
L’Italia è il paese europeo di grandi dimensioni con il trend peggiore in termini di ricchezza individuale prodotta dal 1990 in poi. Non può sfuggire, inoltre, che tale tendenza non è affatto terminata: il 2013 si chiuderà con ulteriori pesanti discese di Pil e della produzione manifatturiera, ben superiori a quelle delle altre economie occidentali industrializzate.
I dati sull’andamento degli specifici comparti industriali mostrano cifre da depressione post-bellica: dall’aprile 2008 al dicembre 2012 il settore degli elettrodomestici ha registrato una flessione del -52,2% (-9,8% in Francia, -19,1% in Germania), l’automotive del -51% (-41,8% in Francia e +1,5% in Germania). Persino le roccaforti produttive del made in Italy hanno denotato un cedimento di dimensioni impensabili sino a pochi anni fa: l’industria del legno (mobili compresi, settore “core” italiano) è crollata del -45%, il tessile fattura oggi il -30,7% rispetto al 2008, il calzaturiero il -39,1%.
La dinamica rilevata nell’ultimo quinquennio, peraltro, non è che l’accelerazione di una tendenza di lungo periodo: dalla seconda metà degli anni Novanta i livelli produttivi si sono ridotti del 50% nel tessile e del 70% nelle calzature. Per l’auto, invece, il calo da allora è del 60%.
LE CAUSE DEL DECLINO
La ricerca di Bankitalia non si limita a rilevare le cifre della contrazione, ma ne indaga utilmente le cause: il deficit di crescita è ricondotto al declino della produttività (del lavoro e dei fattori nel loro complesso) del sistema manifatturiero italiano. I grafici sottostanti fanno risaltare in modo evidente come in Italia sia stato dilapidato il patrimonio di competitività industriale accumulato dal secondo dopoguerra sino alla prima metà degli anni Novanta.
Il tracollo della produttività è stato innescato da una molteplicità di fattori, due dei quali di rilievo primario.
Il dito viene puntato innanzitutto sulla pressione fiscale: l’aliquota sui redditi delle società in Italia sopravanza del 2,5% la media dell’Eurozona, ma, considerando anche dell’Irap, è più alta di ben 5 punti. Ma in realtà, fa notare Bankitalia, il vero freno fiscale all’economia nazionale è il cuneo fiscale: il peso dell’Erario sul costo del lavoro è così spropositato da essere forse la causa principale della disfatta industriale (in tabella si riportano i pesi del cuneo fiscale per paese).
Gli analisti di Palazzo Koch sottolineano che la retribuzione netta di un lavoratore italiano medio celibe, nel 2011, era “inferiore del 15% rispetto al Belgio e alla Francia, di circa il 20% rispetto all’Austria e di poco più del 30% rispetto alla Germania”. Il problema della scarsa competitività delle retribuzioni lorde italiane non risiede, quindi, nel (basso) livello dei salari netti: per un lavoratore dipendente medio impiegato nell’industria la retribuzione netta rappresentava nel 2011 poco più del 52% del costo complessivo per l’azienda (quasi il 58% la media negli altri paesi euro). Bankitalia ne desume che il costo del lavoro “se valutato al netto della tassazione, non risulta un fattore di freno primario per la competitività delle imprese italiane”: in sintesi l’assurdo carico fiscale sul lavoro, come oggi impostato, uccide sia il lavoro che l’industria, innescando anche una pericolosa spirale depressiva sulle retribuzioni nette di coloro che riescono a mantenere il posto.
L’altro fattore sostanziale di svantaggio per il sistema produttivo italiano è il costo dell’energia: “i prezzi sostenuti dalle aziende italiane per gli acquisti di energia elettrica, che costituiscono oltre la metà delle spese energetiche delle imprese industriali, sono superiori di circa il 30% rispetto alle loro concorrenti europee”. L’eccessivo costo dell’energia caricato dall’attuale sistema di tariffazione in particolare sulle Pmi italiane è noto da decenni: nel frattempo nulla si è fatto per ridurre il divario con i competitor esteri, anzi sono stati aggiunti in bolletta gli ulteriori oneri connessi alle incentivazioni pubbliche (ma a carico dei privati) per le energie rinnovabili. Esattamente la direzione opposta a quella da seguire per creare un ambiente competitivo favorevole alla crescita.
Se pressione fiscale e fattura energetica sono le cause principali per la perdita di competitività del sistema produttivo italiano, anche altri fattori storici, tutti interni al settore industriale, hanno contribuito alla deindustrializzazione: dalla bassa capitalizzazione delle imprese, alle dimensioni medie (inadeguate al nuovo contesto competitivo creatosi a seguito dell’introduzione dell’euro e della globalizzazione), alla scarsa diffusione di veri meccanismi di mercato (interno), alle poche risorse destinate all’innovazione (intesa sia come ricerca che come implementazione di nuove tecnologie). Anche la proprietà familiare delle aziende, vecchio punto di forza del sistema produttivo nazionale, non è ormai da molto tempo un fattore premiante nella competizione internazionale.
IL RUOLO STRATEGICO DELL’INDUSTRIA
Secondo Via Nazionale, rilanciare lo sviluppo industriale italiano lungo direttrici più moderne “è una priorità … Nel 2012 l’industria italiana ha prodotto 257 miliardi di euro di valore aggiunto, con un’occupazione di 4,7 milioni di addetti. Rappresenta oggi meno del 20% del valore aggiunto e dell’occupazione complessivi, ma è una fonte fondamentale di innovazione e competitività (effettua oltre il 70% della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e ha un ruolo decisivo nell’equilibrio dei conti con l’estero (contribuisce per quasi l’80% alle esportazioni). Utilizzando sempre più servizi, essa agisce anche da traino per il settore terziario: le esportazioni industriali incorporano valore aggiunto prodotto dal settore dei servizi per il 40% del proprio valore complessivo”. In una sintesi di poche righe emerge il ruolo strategico del comparto industriale in una qualsiasi economia occidentale, a prescindere dal relativo peso specifico (meno di un quinto) del settore sul Pil nazionale: senza un’industria forte non si avrebbe alcun meccanismo in grado di fare da volano allo sviluppo tecnologico e alla crescita del terziario, i conti con l’estero sarebbero in perenne (insostenibile) deficit. Dal grafico sotto si vede che l’Italia nel 2011 era ancora il secondo paese manifatturiero europeo, ma in pericolosa flessione.
Risalta, nelle pagine dello studio, un’osservazione poco indulgente sul sistema imprenditoriale: “le carenze in termini di miglioramento dell’efficienza produttiva non sono il riflesso di una domanda interna stagnante, ma discendono da debolezze dal lato dell’offerta”. Come dire: il sistema industriale deve esso stesso, per primo, impegnare risorse per la ripresa, almeno in termini di dotazione di capitali e di innovazione di prodotto. Troppo comodo, aggiungiamo noi di Economy2050, lamentarsi delle innegabili deficienze e costi causati dal settore pubblico nell’attesa del solito sussidio o cambio di regole (magari sul costo del lavoro o sul credito assistito da garanzie pubbliche), senza che gli industriali per primi siano disposti ad investire risorse finanziarie o a ripensare la struttura eccessivamente polverizzata (ormai sempre più fuori mercato) del sistema manifatturiero nazionale. Non a caso lo studio sottolinea che il declino dell’industria italiana “non è irreversibile, purché le imprese sappiano trasformarsi”.
LA NECESSITA’ DI INTERVENTI RAPIDI ED EFFICACI
Sebbene il terreno perso sia tanto, gli economisti di Bankitalia ritengono che per l’Italia non è ancora giunto il punto del non ritorno: “vi sono buone ragioni per dubitare che il destino dell’industria italiana sia segnato”. A patto che si agisca con consapevolezza: “la politica economica deve riservare una particolare attenzione al settore industriale, ma non con sussidi vecchia maniera”.
E’ evidente che occorre cambiare molto rispetto al passato, e in fretta. Le linee di intervento su cui agire il più rapidamente possibile vanno dal più efficace impiego delle risorse produttive esistenti (“è necessario intervenire sui meccanismi di allocazione delle risorse (capitale e lavoro) dai settori e dalle imprese meno produttive a quelli più produttivi, dalle lavorazioni in cui la pressione competitiva dei paesi emergenti non è sostenibile ad altre più avanzate e complesse”) alla definizione di una politica industriale degna di tale nome, che punti a ovviare alle maggiori debolezze del sistema produttivo (in particolare favorendo la diffusione di strategie d’impresa più al passo con l’attuale contesto competitivo globale).
Dato che il declino di competitività industriale è riconducibile in gran parte ad elementi legati al ruolo del settore pubblico, dal livello di tassazione insostenibile, alla determinazione della struttura dei costi energetici, al livello dei servizi resi (ad esempio a seguito degli “oneri determinati dalle inefficienze della burocrazia e della giustizia civile”), risulta ineludibile un profondo intervento sull’apparato pubblico, al fine di ridurre “i costi sopportati dalle imprese italiane: sia quelli energetici, che incidono in modo particolare sull’industria, sia quelli derivanti da un quadro regolamentare complesso e oneroso, … dalle inefficienze della pubblica amministrazione, dalle carenze nei servizi pubblici e nelle infrastrutture”. Opportune riforme, quindi, potrebbero/dovrebbero porre rimedio sia dal punto di vista degli indirizzi di politica economica (e sociale), che da quello dell’amministrazione concreta della cosa pubblica. Una tesi condivisibile in astratto, ma resa complicatissima nel concreto dall’evidente potere di interdizione politica del blocco sociale politico/burocratico italiano, che da anni si oppone alle evidenti necessità di riforme di sistema.
Anche il sistema finanziario dovrebbe adeguarsi ai tempi: la capacità di fornire capitale alle imprese non dovrebbe limitarsi al credito, ma anche a sistemi più efficienti degli attuali per fornire capitali di rischio e finanziamenti non bancari, in particolare a sostegno dell’innovazione.
GLI INCENTIVI PUBBLICI
Una particolare attenzione va posta sull’utilizzo delle limitatissime risorse finanziarie pubbliche: l’imperativo dovrebbe essere quello di “agire sui costi delle imprese e definire un insieme ristretto di misure di sostegno che siano ben mirate”. Sicuramente non sono all’altezza dei bisogni odierni i sussidi vecchia maniera: lo Stato deve abbandonare l’idea di fornire contributi in base a bandi (comunque non per tutti), ma gettare le basi per creare condizioni strutturali di maggior competitività di tutto il sistema produttivo, principalmente intervenendo a riduzione dei costi per le imprese (lavoro ed energia).
Secondo Bankitalia misure di sostegno specifiche al settore industriale potrebbero anche essere mantenute, ma esclusivamente se riferite ad ambiti di intervento ben mirati, a condizione di uno stretto monitoraggio sui risultati e di regola per mezzo di meccanismi di erogazione automatici. Insomma, agevolazioni pubbliche non generali avrebbero senso solo nell’ottica di (pur necessarie) leve di politica industriale da attivare per incentivare la crescita di alcuni settori o di tecnologie produttive ritenuti strategici, ma con spazi di discrezionalità politica esistenti solo a livello di indirizzo e mai di erogazione. Gli indirizzi di politica industriale che secondo Bankitalia dovrebbero essere oggi adottati riguardano l’incentivazione alla crescita dimensionale delle imprese, all’attività di ricerca e sviluppo e alla nascita di imprese tecnologicamente innovative.
CONCLUSIONI
Il senso del report di Bankitalia è che la classe dirigente italiana (politica e imprenditoriale) non ha colto per oltre un decennio l’involuzione in atto del sistema industriale. Eppure gli allarmi contenuti in una serie sterminata di studi nazionali e internazionali sono da lustri di dominio pubblico. Noi di Economy2050 ricordiamo che fino a qualche anno fa era acceso uno sterile dibattito fra chi sosteneva che l’Italia fosse in declino e chi asseriva che il Pil calante non rappresentasse altro che una fisiologica fase di consolidamento in un trend crescente di lungo periodo (tesi valida, forse, per gli altri paesi industriali europei): oggi i numeri evidenziano con chiarezza che da tempo è stata imboccata la via del declino, senza che sia stata assunta alcuna significativa misura di politica economica per contrastare l’implosione della manifattura italiana.
Nell’ultimo anno della scorsa legislatura addirittura la classe politica ha delegato ad un governo tecnico (resosi necessario a causa dell’urgenza di risanamento dei conti pubblici imposta dall’Ue) l’improbo compito di sciogliere i nodi corporativi che bloccano lo sviluppo del paese: tentativo che tuttavia ha conseguito risultati minimi sul fronte del recupero di competitività del sistema manifatturiero nazionale. In sostanza si è perso un anno: i vincoli strutturali che legano le prospettive di sviluppo rimangono pressochè intatti.
Nonostante siano trascorsi pochi mesi dalle elezioni per un giudizio compiuto, purtroppo ad oggi sembra che il rilancio produttivo non sia la priorità assoluta neanche per il neo-eletto Parlamento, nonostante i dati sull’economia italiana mostrino un deterioramento sempre più prossimo all’irreversibilità. In autunno sarà chiaro se gli attuali governo e Parlamento sapranno mettere mano alle cause che stanno facendo affondare l’Italia o se continuerà l’inutile atteggiamento (tipico della politica italiana) di tamponare il declino con misure emergenziali di carattere assistenzialistico e di breve respiro.