LA TASSAZIONE SUL PATRIMONIO IN ITALIA E IN EUROPA

Nel periodo 1995-2010, dati Eurostat alla mano, l’Italia ha perseguito una politica fiscale dissonante rispetto al resto d’Europa, detassando i patrimoni a scapito dei redditi. Questa scelta, peraltro iniqua data la concentrazione della ricchezza, ha prodotto una serie di conseguenze negative che oggi si pagano.

In questi giorni in Italia è molto acceso il dibattito sull’opportunità di introdurre  una differente tassazione patrimoniale, in particolare in relazione alle proprietà immobiliari. Per meglio comprendere i termini del dibattito pubblico è interessante effettuare una comparazione delle imposizione patrimoniale italiana rispetto al resto d’Europa.

I DATI DELL’EUROSTAT

L’Eurostat analizza annualmente la struttura dei sistemi fiscali dei 27 membri Ue nel rapporto Taxation Trends in the European Union . Le statistiche oggi disponibili si riferiscono al 2010.

L’analisi delle imposte sul capitale condotta da Eurostat distingue tra imposte sui redditi (compresi i redditi di imprese e lavoratori autonomi) e imposte sui capitali (stock): il valore di queste ultime è  commisurato al valore del patrimonio (quindi sono imposte patrimoniali). Va precisato che l’Eurostat considera come imposte sugli stock: le imposte di bollo e di registro (stamp taxes); quelle sulle transazioni finanziarie e di capitale; quelle su terreni, immobili e loro uso. Applicando la ripartizione all’Italia a grandi linee abbiamo che nella prima categoria rientrano le imposte sulla ricchezza finanziaria (bollo sui dossier titoli), nella seconda quelle sulle transazioni finanziarie (per esempio Tobin tax di recentissima introduzione), nella terza quelle immobiliari (Imu). I sistemi di tassazione fra i vari Paesi Ue sono differenti e non perfettamente paragonabili, ma i dati statistici ufficiali sono comunque utili a inquadrare comparativamente le dimensioni della tassazione sui patrimoni nell’Ue.

LA RIDUZIONE DEL CARICO FISCALE SUI PATRIMONI

I dati storici indicano un percorso singolare dell’Italia sul piano della tassazione dei patrimoni rispetto al resto d’Europa. Come si vede dalla tabella sotto riportata,  nel 1995 l’Italia era uno dei Paesi con una più alta quota di gettito proveniente dalle imposte patrimoniali: il 9,8% sul totale della entrate tributarie, poco distante  da Gran Bretagna (10,5%, l’aliquota europea più alta) e Francia (9,9%), non molto superiore alla Spagna (7,4%). La Germania, unica eccezione fra le grandi economie dell’Ue, nel 1995 derivava poco più del 3% del gettito complessivo dal prelievo patrimoniale. Nel 2010 la quota di gettito proveniente dalle imposte patrimoniali era scesa in Italia di quasi il 4%, attestandosi al 5,9% delle entrate fiscali: un livello inferiore alla media europea ponderata (6,6%), peraltro fortemente influenzata al ribasso dall’esigua tassazione patrimoniale tedesca (economia che pesa per quasi un quinto del Pil europeo). Dalla tabella si evince che gli altri grandi Paesi europei hanno tendenzialmente aumentato la quota di gettito dalle imposte patrimoniali (il Regno Unito addirittura si è portato al 12,1%); l’Italia è stato il Paese che più ha abbassato in Europa il peso della tassazione patrimoniale (-3,9%), tra i grandi Paesi accompagnato solo dalla Germania (che ha ridotto la tassazione solo dello -0,2%).

Evoluzione della tassazione sui capitali in Europa (periodo 1995 – 2010)

La discesa dell’imposizione patrimoniale italiana degli ultimi anni è presumibilmente da attribuire alla progressiva riduzione dell’Ici. A grandi linee si può ritenere che dei quasi 38,7 miliardi di gettito da imposte sugli stock del 2010, circa 17 miliardi siano riferibili sostanzialmente ai redditi da attività finanziarie, circa 11 miliardi alle imposte di registro e di bollo; infine altri 10 miliardi riguardano imposte indirette sui prodotti (ipotecarie, concessioni governative, diritti catastali, assicurazioni). Indicativamente, quindi, l’imposizione diretta sugli immobili delle famiglie ha, in questo quadro, un ruolo residuale (qualche centinaio di milioni), tassata marginalmente in Irpef e vista l’abolizione dell’Ici. Da notare che l’imposizione sugli immobili strumentali di impresa non rientra in questo aggregato, assorbita dalla tassazione Ires.

QUANTO PESA LA TASSAZIONE SUI PATRIMONI

L’Eurostat non fornisce l’aliquota implicita sugli stock di capitale (come invece è possibile ricavare sui redditi), ma è noto il dato ufficiale della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie italiane: circa 8.600 miliardi di euro, oltre cinque volte il Pil, suddivisa in circa 6mila miliardi, poco meno dei 2/3, di ricchezza reale (di cui circa 5mila miliardi al netto dei mutui in abitazioni) e circa 3.500 miliardi di attività finanziarie (vedi post Economy2050 “La composizione della ricchezza netta delle famiglie italiane”).

E’ altrettanto noto che la ricchezza pro capite italiana è ancora una delle maggiori in Europa (post Economy2050 “La ricchezza in Italia: scende (di poco) e si concentra (in mano a pochi)”): è chiaro che, a fronte di un patrimonio pro capite più elevato e di un gettito proporzionalmente inferiore che altrove, l’aliquota teorica della tassazione del patrimonio è notevolmente più ridotta in modo strutturale in Italia. Il dato intuitivo è da mettere in correlazione anche con il trend di concentrazione della ricchezza in capo ad una percentuale sempre più esigua della popolazione italiana: nel post “La ricchezza delle famiglie italiane scende nel 2011 di 63 miliardi” abbiamo visto come il 10% della popolazione più ricca detiene il 45,9% della ricchezza complessiva, il 50% più povero il 9,4% della ricchezza totale.

L’ITALIA HA PREFERITO TASSARE IL LAVORO

L’Italia, uno dei Paesi a maggior pressione fiscale nell’Ue, dal 1995 ha deciso di quasi dimezzare le imposte sui patrimoni. Una politica fiscale legittima, come qualsiasi altra, su cui vale la pena esporre qualche riflessione

Innanzitutto è da notare che l’Italia dal 1995 in poi si è mossa in controtendenza non solo rispetto al trend dell’Europa a 27 (la quota di imposte sugli stocks di capitale media ponderata europea è rimasta costante sul totale del gettito fiscale dei Paesi Ue), ma in particolare in modo divergente riguardo alla tassazione sul patrimonio degli altri grandi Paesi europei (Germania esclusa). Ciò non significa di per sé che la sostanziale riduzione sia un errore: certo, in un’ottica di una ipotetica convergenza delle politiche fiscali comunitarie, tale percorso risulta singolare.

E’ inoltre evidente che, a fronte di un aumento complessivo della pressione fiscale di circa 2,5% di Pil nel periodo 1995-2010 (dal 39,8% al 42,3%), evidentemente i Governi italiani che si sono succeduti nel quindicennio hanno ritenuto più opportuno tassare il reddito da lavoro (dal 10,4 del 1995 all’11,7% del Pil del 2010), piuttosto che i patrimoni(la tassazione sugli stock è scesa dal 3,9 al 2,5% del Pil in valore assoluto).

Evoluzione della tassazione totale per Paesi in Europa (periodo 1995 – 2010)

                                                                                                                                 Fonte: Eurostat

La quota parte della tassazione sul lavoro sul totale del gettito fiscale è salita in quindici anni dal 26,2 al 27,7%.

ALCUNI CRITERI DI INDIZZO SULLA POLITICA FISCALE

Per dare una valutazione compiuta sul merito della descritta politica fiscale italiana occorre domandarsi se vi siano imposte meno dannose o più efficienti o più eque di altre.

L’analisi economica sugli effetti dannosi della tassazione del risparmio (patrimonio) non è di molto aiuto. L’evidenza empirica non sembra segnalare valori elevati dell’elasticità del risparmio rispetto ai livelli di tassazione: ovvero, l’incremento delle tasse sulla ricchezza non dovrebbe avere effetti particolarmente dannosi sulla propensione al risparmio (quindi sull’accumulazione di capitale e, qualora questo venisse investito nell’economia reale e non in quella finanziaria, sugli investimenti produttivi). Su questo punto, anzi, il caso italiano evidenzia che intervengono altre variabili in grado di influenzare l’accumulo di risparmio: quando la tassazione sul patrimonio era più elevata, la propensione al risparmio degli italiani era maggiore (secondo l’Istat 13,6% del reddito disponibile nel 2001, 9,1% nel 2010). Questa apparente contraddizione è intuitivamente spiegabile: la riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni (insieme alla sfiducia indotta dall’evidente deterioramento dell’economia italiana) ha inciso sulla propensione al risparmio ben più della benevolenza fiscale nei confronti della ricchezza. O meglio: aumentare il cuneo fiscale sui redditi e tenere bassi anche i salari lordi sta facendo uscire dal circuito di accumulazione del risparmio fette sempre più ampie della popolazione, lasciando la possibilità di incrementare il (poco tassato) risparmio solo ad una esigua parte degli italiani, come visto nel post Economy2020 “In Italia calano redditi e risparmio. La povertà avanza”.

L’efficienza delle imposte è un tema complesso. Può venire in aiuto, su questo piano, una ricerca econometrica dell’Ocse pubblicata sul finire del 2011: l’analisi sostiene che le imposte sul patrimonio immobiliare e mobiliare sono ragionevolmente quelle meno negative per la crescita economica. La ricerca ha formulato anche una sorta di graduatoria fra le diverse tipologie di imposte, ordinate in base al criterio dell’impatto negativo ai fini della crescita: le imposte meno dannose per lo sviluppo economico sarebbero quelle sugli immobili, visto che tendono a compensare il vantaggio fiscale derivante dalla deducibilità degli interessi sui mutui e dall’esenzione dall’imposta sui guadagni di capitale. Poco dannose anche le imposte sulle transazioni, incluse quelle finanziarie (tra cui rientra la Tobin tax). Relativamente più dannose per la crescita sarebbero le imposte più consumi, superate solo da quelle sul lavoro e sul profitto delle imprese.

Per quanto concerne l’equità fiscale, la concentrazione patrimoniale sempre più accentuata (come sopra ricordato) in mani di pochi solleva un serio problema: detassando i patrimoni si agevolano pochi (peraltro i più ricchi), tassando maggiormente i redditi si colpiscono tutti (peraltro i redditi alti, secondo le statistiche di Bankitalia sono meno concentrati dei patrimoni), anche chi ha un reddito marginale. Se poi è la stessa politica fiscale a favorire la concentrazione della ricchezza (come vedremo fra poche righe), contribuendo a ridurre il potere d’acquisto e la propensione al risparmio della gran parte della popolazione , qualcosa (sia dal punto di vista sociale che da quello della tenuta di lungo termine del sistema economico) non quadra.

QUALCOSA NON ANDAVA

Le conclusioni a cui è giunta l’Ocse sono coerenti con la linea adottata da tempo dalla Commissione Ue e consigliata anche dalla Bce e dal Fmi: il corretto bilanciamento del tax mix prevede una riduzione delle imposte sui redditi da lavoro (e di impresa, a patto che le imprese reinvestano gli utili) compensato dall’incremento della tassazione sui patrimoni mobiliari e immobiliari. Queste sono da anni le linee guida delle maggiori istituzioni internazionali. Si può non essere d’accordo, ma l’involuzione dell’economia italiana appare come la dimostrazione concreta che il modello fiscale adottato per lunghi anni e sino al 2010 non era ottimale ai fini di favorire efficienza e crescita del sistema produttivo.

Peraltro l‘evidenza italiana dimostra anche che la propensione al risparmio può non risentire positivamente della riduzione delle imposte sui patrimoni: anzi, in presenza della riduzione dei redditi medi disponibili, si è favorita solo una maggiore concentrazione della ricchezza. Del resto (spesso ricorre questa pregiudiziale sulla tassazione dei patrimoni) non è detto che l’aumento delle imposte sui patrimoni dei privati disincentivi il processo di accumulazione di capitale investito in attività produttive (non in immobili o attività finanziarie): non va sottovalutato il fatto che, se si disincentivasse l’accumulo di ricchezza finanziaria (o immobiliare) a vantaggio di quella reale non immobiliare (attività produttive), probabilmente si registrerebbe un positivo impulso per la ripresa del ciclo economico italiano. A patto, sempre, di consentire il recupero del potere d’acquisto dei salari.

Insomma, la politica fiscale italiana nell’ultimo quindicennio è andata in una direzione originale, dati Eurostat alla mano: ha tassato il lavoro, detassato la ricchezza, favorito la concentrazione della ricchezza, disincentivato la crescita economica, svilito il potere d’acquisto dei salari medi e azzerato la crescita della produttività manifatturiera(tema che affronteremo in una serie di prossimi post), contravvenendo peraltro ogni consiglio di best practice internazionale.

I CORRETTIVI DEL 2011

L’insostenibile situazione sopra descritta è stata superata di slancio negli anni 2011 e 2012, sui quali ancora non esistono statistiche Eurostat. Nel 2011 il Governo Berlusconi introdusse una mini-patrimoniale a scaglioni e regressiva (ovvero tassava proporzionalmente di più i meno abbienti!) sulla ricchezza finanziaria e l’Imu (ma con decorrenza dal 2014). Sul finire del 2011 e nel 2012 il Governo Monti ha corretto buona parte della regressività dell’imposta sui patrimoni finanziari e ha anticipato e definito l’Imu.

In un solo anno, il 2011 (con effetti principali nel 2012) è stato invertito il trend di detassazione patrimoniale italiano: dall’imposta sulle attività finanziarie il Tesoro dovrebbe incassare qualche miliardo, dall’Imu le ultime stime dicono circa 24 miliardi (il preventivo era di 19 miliardi, poi aumentati per effetto dell’incremento senza freno delle aliquote comunali).

Se il gettito complessivo delle nuove imposte patrimoniali di dovesse attestare sui 26-27 miliardi di euro, le imposte complessive sugli stock di capitale aumenterebbero di circa due terzi (tornando approssimativamente al livello del 1995). Una valutazione più completa potrà essere fatta solo alla luce dei saldi definitivi.

Noi di Economy2050 ci limitiamo ad osservare che se era opportuno tassare maggiormente i patrimoni, era ed è ugualmente necessario detassare il lavoro: su questo fronte poco, pochissimo è stato fatto.

Alla luce di quanto sopra, stupisce che in campagna elettorale vi sia ancora qualcuno che sostenga la bontà della (nefasta) politica fiscale adottata sino al 2010, proponendo ancora l’eliminazione di imposte patrimoniali e tacendo sull’indifferibile necessità di ridurre il cuneo fiscale sui redditi da lavoro.

In un prossimo post approfondiremo alcuni aspetti specifici dell’imposizione patrimoniale più pesante e controversa, l’Imu.

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